Percorriamo insieme al Direttore dell’SR-Tiget le tappe che dagli albori di questa tecnica avanzata hanno portato al trattamento di bambini con malattie genetiche rare che a distanza di anni stanno bene.

Incontriamo Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica di Milano, all’indomani della consegna del Lifetime Achievement Award di Phacilitate per il suo fondamentale contributo al campo della terapia genica, in particolare quella basata su vettori lentivirali, costruiti cioè a partire dal virus HIV.

Qual è stato l’inizio di questo viaggio?

Quello della terapia genica è un ambito di ricerca entusiasmante. L’idea di trasferire geni o cellule nel corpo umano a scopo terapeutico è rivoluzionaria: è un intervento trasformativo, che può curare una malattia alla radice in un’unica somministrazione. Il mio incontro con la terapia genica risale a molti anni fa, a metà degli anni Novanta, quando rimasi affascinato dall’idea di usare questo approccio per curare malattie gravissime. In quel periodo avevo letto un articolo di Harold Varmus, allora direttore dei National Institutes of Health (NIH), che diceva che “la terapia genica aveva tre problemi: vettori, vettori, vettori”. Non c’erano ancora strumenti abbastanza efficienti per trasferire geni nelle cellule umane: i più promettenti erano quelli costruiti a partire da retrovirus, virus capaci di inserire in modo stabile il proprio patrimonio genetico in quello delle cellule che infettavano. Decisi che volevo lavorare su questo e così nel 1994 mi trasferii al Salk Institute di La Jolla (USA) per lavorare con Inder Verma, uno dei primi ricercatori che si erano occupati dello sviluppo di vettori di origine virale per la terapia genica. Il caso volle che al piano di sopra lavorasse Didier Trono, impegnato invece a studiare un nuovo retrovirus da pochi anni comparso sulla scena e che stava mietendo vittime in tutto il mondo: l’HIV. Mi chiesi allora se proprio la straordinaria capacità di quel virus di infettare le cellule umane potesse essere sfruttata per costruire un vettore più efficiente di quelli allora disponibili. È così che è iniziato tutto. Certamente allora non potevamo sapere se questi nuovivettori avrebbero funzionato, ma io ci credevo molto.

C’è stato un momento chiave?

Sicuramente quando ho visto per la prima volta al microscopio la cellula nervosa di un topo modello diventare fluorescente dopo averla messa a contatto con un vettore lentivirale: significava che eravamo riusciti a trasferire del materiale genetico esterno in quella cellula. Il grosso problema dei vettori retrovirali disponibili fino a quel momento era che non erano in grado di infettare cellule quiescenti, cioè che non si duplicano. Ai tempi il neurone era la cellula quiescente per eccellenza: ecco perché quel risultato si guadagnò nel 1996 la copertina di Science, perché rappresentava una tappa importante del percorso. Oggi probabilmente quei dati non sarebbero bastati: ai tempi non sapevamo che nel cervello ci sono anche cellule staminali neurali che sono in grado di dividersi e che quindi avrebbero potuto confondere i nostri risultati. Per fortuna ci avevamo comunque visto giusto!

Quali sono state le principali sfide da affrontare?

Ce ne sono state tante, ma la più grande, specialmente all’inizio, è stata la comprensibile paura suscitata dall’HIV. Ricordo che il giorno in cui ho presentato quei primi dati ottenuti sui modelli murini, un eminente collega si è alzato e mi ha detto: “che bel lavoro, un bel contributo scientifico – spero però che rimanga tale e lei non si spinga oltre, non penserà di applicarlo nell’uomo, vero?”. Credo che in quel momento esprimesse molto bene la comprensibile paura di quegli anni verso una tecnologia nuova, che sfruttava un virus temuto, ma poi le cose sono andate diversamente. Abbiamo lavorato molto per spezzettare il genoma del virus e mantenerne soltanto le porzioni utili per entrare nelle cellule bersaglio, eliminando quelle che lo rendevano capace di replicarsi. Abbiamo messo a punto dei vettori sempre più sicuri, tanto da poterli impiegare nell’uomo. E oggi sono ampiamente usati nei laboratori di tutto il mondo, facendo quasi dimenticare di derivare da uno dei virus più mortali che conosciamo.

Qual è stato il ruolo dell’industria farmaceutica?

L’industria ha sempre guardato con interesse a queste nuove tecnologie, intuendone le potenzialità. I primi risultati clinici ottenuti sull’uomo hanno dato una bella spinta: noi dell’SR-TIGET siamo riusciti a convincere una multinazionale farmaceutica come GlaxoSmithKline a prendere in considerazione la nostra piattaforma quando abbiamo somministrato la terapia genica basata su vettori lentivirali ai primi pazienti. Grazie a un grande lavoro di squadra, abbiamo portato avanti la sperimentazione clinica su molti più pazienti, arrivando anche all’approvazione della terapia per una grave malattia genetica dell’infanzia, la leucodistrofia metacromatica. È un vero peccato che attualmente, nonostante gli importanti risultati ottenuti, l’industria si stia tirando indietro, almeno per quanto riguarda le malattie rare, che invece sono state il banco di prova per le prime terapie geniche. Certamente si tratta di una sfida che si aggiunge alle altre che stiamo affrontando, insieme a Fondazione Telethon: vogliamo fare in modo che quelle terapie che abbiamo messo a punto con così grande sforzo nel corso di tanti anni siano disponibili per i pazienti di tutto il mondo.

Qual è stato ad oggi l’impatto sui pazienti delle terapie geniche su cui hai lavorato?

Finora i vettori lentivirali sono stati usati prevalentemente per la terapia genica “ex-vivo”, per correggere cellule prelevate dai pazienti e corrette al di fuori del loro organismo, in particolare staminali del sangue o linfociti T. Queste cellule sono particolarmente adatte per questo approccio: i vettori lentivirali si integrano nel loro patrimonio genetico e, dal momento che si duplicano molto, una volta reinfuse possono trasferire la correzione alle proprie cellule figlie. Ad oggi nel mondo sono circa 400 i pazienti che hanno ricevuto una terapia genica basata su cellule staminali del sangue modificate con vettori lentivirali, per oltre 19 diverse patologie genetiche: ben un quarto di questi sono stati trattati nel nostro istituto, che si conferma tra i leader del settore. Se si considera poi l’ambito oncologico, sono oltre 3600 le persone trattate con CAR-T, cellule T modificate in modo da riconoscere quelle cancerose: ben 4 delle 6 terapie di questo tipo approvate in Europa si basano proprio su vettori lentivirali.

Cosa vede nel futuro della terapia genica?

Credo che la terapia genica sia giunta a un punto di svolta. Da una parte abbiamo dati solidi a conferma della sicurezza e dell’efficacia delle strategie di prima generazione, mirate a fornire versioni sane di geni altrimenti non funzionanti. Dobbiamo però impegnarci ad allargarne l’applicazione e l’accesso, anche per un numero maggiore di malattie. Al contempo, abbiamo a disposizione nuovi strumenti di editing genetico: ce ne sono diversi, tanto da permetterci il “lusso” di scegliere il più adatto per l’applicazione di nostro interesse. Al momento l’applicazione in clinica dell’editing genetico riguarda soprattutto l’eliminazione di geni tossici, piuttosto che l’inserimento di nuovi: qualcosa di impossibile finora, a conferma di come questa nuova tecnologia sia davvero potente. La vera domanda è se nel prossimo futuro saremo capaci di riscrivere il genoma per correggere malattie genetiche in modo sicuro ed efficiente.

Cosa consiglierebbe a chi sta iniziando adesso a occuparsi di terapia genica?

Quando si lavora a una nuova strategia, soprattutto se si ha l’ambizione di provare a trasformarla in una cura, si deve avere in mente fin dall’inizio il proprio obiettivo e chiedersi se sia realistico e fattibile. Non bisogna fare tutto da soli, occorre confrontarsi il più possibile con i clinici e altri scienziati, così da mantenere la rotta e non prendere strade sbagliate. Bisogna anche essere aperti verso le nuove tecnologie e valutarne sia i vantaggi che i potenziali limiti. Nessun farmaco è perfetto, bisogna sempre fare un bilancio tra rischi e benefici. Solo così possiamo provare a governare una nuova tecnologia e applicarla quando eventualmente arriva il momento.

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