A questa e ad altre domande intende rispondere un progetto di ricerca di Fondazione Telethon e Regione Lombardia per capire fattibilità, limiti e implicazioni del sequenziamento del genoma dei neonati.

Il dna
  • Saresti d’accordo se la tua regione decidesse di avviare un programma di screening genetico neonatale che preveda il sequenziamento del Dna di tutti i neonati per individuare in anticipo eventuali malattie genetiche, comprese quelle per le quali non sono disponibili trattamenti e terapie?
  • Consideri un diritto dei genitori conoscere quali patologie potrebbe sviluppare un figlio, anche in età adulta?

Sono alcune delle domande presenti in un sondaggio lanciato online nella prima metà del 2023 nell’ambito di un progetto di ricerca sulla fattibilità dello screening genetico neonatale coordinato da Regione Lombardia e Fondazione Telethon.

Il progetto, chiamato Rings, vede inoltre la collaborazione della Federazione Italiana Malattie Rare (UNIAMO), dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo e dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. I dati sono ancora in elaborazione, ma possiamo proporre alcune anticipazioni: la grande maggioranza di chi ha
risposto alle domande riportate ha accolto con grande favore l’ipotesi di individuare già alla nascita il maggior numero possibile di malattie, anche quelle che si svilupperanno in età adulta o per le quali non esistono terapie. Una posizione molto netta, con la quale non sono necessariamente d’accordo gli esperti.

Dal test di Guthrie allo screening genetico

Facciamo un passo indietro, alla fine degli anni ‘60, quando il microbiologo americano Robert Guthrie ideò un test per individuare alla nascita la fenilchetonuria, grave malattia metabolica rara i cui effetti negativi possono essere scongiurati con una particolare dieta terapeutica. Erano gli albori dello screening neonatale, introdotto in modo obbligatorio in Italia nel ‘92 per la ricerca alla nascita di fenilchetonuria, ipotiroidismo congenito e fibrosi cistica.

Nel 2016 lo screening è stato allargato a 47 malattie, ora diventate 49. Date le continue innovazioni nelle tecniche di sequenziamento del Dna, però, è diventato inevitabile chiedersi se la lettura completa del genoma di un neonato non possa dare informazioni ancora più utili: individuare subito il maggior numero possibile di malattie genetiche rare, descrivere il rischio di sviluppare nel corso della vita malattie più comuni (e mettere in atto precauzioni per evitarlo), conoscere in che modo l’organismo potrebbe rispondere a determinati farmaci. Come spesso accade, però, nella realtà le cose sono più complicate di quanto sembrano ed è proprio di queste possibili complicazioni (cliniche, ma anche bioetiche, economiche, legali, ecc.), che si occupa il progetto Rings.

Diagnosi o screening?

«Il sequenziamento completo del genoma di un neonato è già utilizzato in ambito clinico in situazioni molto particolari» afferma Maria Iascone, direttrice del Laboratorio di genetica medica dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo e coordinatrice di uno dei “rami” clinici del progetto Rings. «Succede per esempio quando ci troviamo di fronte a un bimbo con una malattia della quale si sospetta un’origine genetica ma che non si riesce a diagnosticare con gli strumenti tradizionali. Tra questi, è compreso il sequenziamento dell’esoma, cioè della porzione di genoma costituita da tutte le sequenze che contengono le informazioni per costruire le proteine. In questi casi, analizzare il genoma completo del bambino può permettere di arrivare a una diagnosi che altrimenti sarebbe rimasta conosciuta o di arrivarci più in fretta». In circostanze così particolari l’utilità dell’esame è chiara. Ora, però, Fondazione Telethon e Regione Lombardia stanno cercando di capire se lo stesso esame possa essere impiegato come screening, da applicare a una popolazione generale (tutti i neonati) composta in maggioranza da individui sani.

Il grande limite dell'incertezza

«Per cominciare, se un genoma è senza dubbio una miniera di informazioni va detto molto chiaramente che queste informazioni non le sappiamo ancora interpretare tutte» spiega Iascone.

«Nell’immaginario collettivo, basta infilare una provetta di sangue in un macchinario per sapere tutto del nostro futuro, ma non funziona così».

Maria Iascone, tra le coordinatrici del progetto Rings

«Abbinare un’eventuale variante genetica (ognuno di noi ne possiede circa quattro milioni!) all’ipotesi di un quadro clinico futuro non è per niente semplice e talvolta rimane impossibile». In altre parole, leggendo il DNA di un neonato si possono trovare alterazioni genetiche delle quali non sono chiare eventuali conseguenze
sul piano clinico
. «Quello dell’incertezza del dato genomico è un grande tema bioetico», commenta Davide Battisti, consulente in bioetica del progetto Rings presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele. «La comunicazione di dati incerti potrebbe
generare un eccessivo carico emotivo dei genitori e far emergere un fenomeno chiamato “del paziente in attesa”. Il bambino oscillerebbe continuamente tra l’essere considerato sano e l’essere considerato malato, con il rischio di essere avviato a una serie infinita di controlli magari non necessari e costosi».

A chi appartiene il dato genetico?

C’è anche un altro, grande, tema bioetico in gioco: chi ha il diritto di conoscere le
informazioni contenute nel DNA di un neonato
? Per esempio: può essere davvero considerato un diritto dei genitori sapere che, una volta adulto, il loro figlio svilupperà (o potrebbe sviluppare) una malattia per la quale magari non esiste una terapia? Secondo molti bioeticisti, in questi casi il rischio è quello di ledere
il cosiddetto “diritto del neonato alla conservazione di un futuro aperto”
: di nuovo, infatti, si potrebbe ricadere nella situazione del paziente in attesa. «Inoltre - aggiunge Battisti - quando si ha a che fare con il genoma umano considerare solo l’interesse del singolo potrebbe essere ritenuto riduttivo, perché il genoma di un individuo può fornire informazioni utili anche per gli altri familiari o addirittura per la società intera». Per esempio, mettendo insieme le informazioni genetiche di più individui di una popolazione si potrebbe scoprire che quella popolazione possiede una
variante genetica
che la mette a rischio di contrarre una certa infezione e questo potrebbe consentire di organizzare misure preventive. D’altra parte, conoscere i genomi di tutti nuovi nati potrebbe aprire le porte a future discriminazioni su base etnica. Già queste poche considerazioni bastano a rendere l’idea di
quanto sia complesso il tema dell’utilizzo del sequenziamento a tappeto dal genoma dei neonati come strumento di screening. Ecco perché anche in questo ambito è fondamentale la ricerca. Come quella di Fondazione Telethon.

Cosa succede all'estero?

Come sta reagendo il resto del mondo all’ipotesi di introdurre uno screening neonatale di tipo genetico? È la domanda che si sono posti nell’ambito del progetto Rings alcuni colleghi di Fondazione Telethon (Stefano Benvenuti, Giuditta
Magnifico e Irene Artuso)
coinvolti nel progetto stesso.

La risposta si trova in un articolo che costituisce un’analisi ragionata di quanto già
pubblicato in letteratura sull’argomento, apparso ad agosto sul Rare Disease and Orphan Drug Journal. La maggioranza dei dati proviene da due progetti pilota condotti di recente negli Stati Uniti (BabySeq e NCNexus). Come scrivono gli autori, però, quanto emerso «non è ancora sufficiente per porre fine al vasto e animato dibattito sull’uso del sequenziamento genomico come strumento di screening neonatale. Le questioni etiche, legali e sociali costituiscono ancora grandi sfide e importanti ostacoli all’adozione diffusa e uniforme di questo strumento e, sul versante clinico, rimangono irrisolte molte questioni come i benefici e i limiti
di approcci differenti». L’inevitabile conclusione è che saranno necessari ulteriori progetti pilota e continue consultazioni con i vari portatori di interesse prima di poter stabilire in che termini includere il sequenziamento genetico
neonatale all’interno di programmi sanitari nazionali.

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