Grazie ai circuiti biomolecolari, le cellule possono accendere e spegnere geni in modo controllato, producendo proteine terapeutiche solo quando servono. Una nuova prospettiva per molte malattie genetiche rare.
Biologia sintetica: un campo che unisce più scienze per creare o modificare forme di vita (come cellule o batteri) in modo controllato e preciso, per far fare loro cose utili, come produrre medicine o pulire l’ambiente. È un settore della ricerca nuovo e con grandi potenzialità. «Grazie ai circuiti biomolecolari possiamo trasformare le cellule in sensori, oppure in fabbriche di farmaci», dice Di Bernardo. «Possiamo attivarle a comando con un segnale chimico o programmarle per reagire a determinati parametri del metabolismo. Il nostro lavoro in questo campo è appena cominciato».
Un cambio di passo
Da tempo ormai siamo capaci di programmare una cellula perché produca una specifica proteina. Per esempio, forniamo ai batteri il gene che contiene le istruzioni per fabbricare insulina umana e il loro macchinario cellulare avvia la sintesi. È così che le aziende farmaceutiche producono grandi quantità di insulina per le persone affette da diabete di tipo 1.
Usiamo la stessa tecnica per curare le malattie provocate dalla carenza di una proteina, a causa di un difetto del gene che contiene le istruzioni per fabbricarla: trasferiamo una copia funzionante del gene nel nucleo delle cellule malate e loro producono la proteina necessaria.
«Ci sono però delle malattie per le quali è importante non solo attivare la produzione di una proteina mancante, ma anche regolare la quantità di proteina prodotta, perché una sua concentrazione troppo bassa o troppo alta è dannosa per la salute del paziente», spiega Diego Di Bernardo, ricercatore dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Pozzuoli, dove dirige un gruppo dedicato alla biologia sintetica, disciplina a cavallo tra l’ingegneria biomedica e la biologia molecolare. «In questi casi, non basta fornire alla cellula il gene terapeutico, cioè quello corretto. Dobbiamo anche attivare e disattivare il gene quando occorre, così che la cellula produca la proteina terapeutica nella giusta quantità».
Per trovare una soluzione a questo problema, Di Bernardo e i suoi collaboratori hanno sviluppato dei circuiti biomolecolari, cioè dei sistemi formati da proteine e segmenti di DNA collegati tra loro come gli elementi di un circuito elettrico. «Pensiamo a una caldaia che riscalda l’aria in una stanza», spiega. «C’è un termostato che la controlla. Lo impostiamo a 25°. Quando la temperatura nella stanza è più bassa, il termostato accende la caldaia e l’aria si scalda. Quando raggiunge i 25°, il termostato spegne la caldaia. Così, accendendola e spegnendola all’occorrenza, mantiene la temperatura al livello desiderato. Analogamente, abbiamo un gene che contiene le istruzioni per produrre una proteina. Con l’aiuto dell’intelligenza artificiale abbiamo progettato una molecola che, introdotta nel nucleo di una cellula insieme al gene, attiva la produzione della proteina sulla base delle istruzioni contenute nel gene. È una sorta di interruttore e, proprio come il termostato fa con la caldaia, attiva il gene solo se la concentrazione della proteina nella cellula è inferiore a una certa soglia. Abbiamo progettato poi una seconda molecola, che agisce quando la concentrazione della proteina terapeutica supera una certa soglia, si lega alla molecola-interruttore e la blocca. Così, la produzione della proteina terapeutica si arresta. In questo modo possiamo controllare con precisione la concentrazione della proteina».
Per trasferire questo circuito biomolecolare all’interno della cellula, i ricercatori si servono di un virus, reso inoffensivo, al cui interno introducono sia il gene terapeutico sia i segmenti di DNA che contengono le informazioni per fabbricare le due molecole che accendono e spengono il gene (vedi figura in alto). Il virus trasporta il materiale genetico nel nucleo della cellula bersaglio, che produce le due molecole di accensione e spegnimento e avvia il funzionamento del circuito. Quella che Diego Di Bernardo e i suoi collaboratori hanno realizzato è una piattaforma universale: con poche modifiche degli interruttori molecolari possono impiegarla per attivare e disattivare diversi geni.
La sperimentazione
«Al momento stiamo sperimentando le sue potenzialità sull’atassia di Friedreich, una malattia neurodegenerativa ereditaria», spiega il ricercatore. «Il gruppo di Vania Broccoli, all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, ha sviluppato un modello cellulare del meccanismo responsabile della malattia. Nei prossimi cinque anni, grazie a un finanziamento che abbiamo ottenuto dall’European Research Council (ERC), metteremo alla prova i circuiti biomolecolari su quelle cellule. Per il momento la sperimentazione clinica sui pazienti è ancora un traguardo lontano, ma lavoriamo in quella direzione».
C’è un’altra applicazione dei circuiti biomolecolari che viene impiegata oggi in laboratorio per studiare la malattia di Wilson, una patologia ereditaria che comporta l’accumulo di rame negli epatociti, le cellule del fegato. «Il gruppo di ricerca di Pasquale Piccolo, al Tigem, ha riprodotto la malattia nei topi, su cui sta sperimentando una terapia genica», spiega Di Bernardo. «Poiché è difficile misurare la concentrazione del rame nelle cellule del fegato dei topi e quindi valutare l’efficacia della terapia, abbiamo messo a punto un circuito biomolecolare che svolge proprio questa funzione. È formato da una molecola sensibile alla concentrazione del rame nella cellula, che attiva un gene responsabile della produzione di una proteina facilmente misurabile nel sangue del topo. La concentrazione della proteina nel sangue è proporzionale alla concentrazione del rame nelle cellule del fegato: misurando la prima, conosciamo la seconda. Così abbiamo reso più spedita la sperimentazione pre-clinica della terapia genica per la malattia di Wilson» conclude Di Bernardo.