La nuova presidente nazionale della Uldm, Stefania Pedroni, si racconta e condivide il programma triennale presidenza Uildm.

Stefania Pedroni, Presidente nazionale UILDM

Stefania Pedroni, neoeletta Presidente nazionale di Uildm, si definisce una persona tranquilla, dal carattere mite, ma molto determinata. «Ho sempre avuto tanti sogni nel cassetto e, come una formichina, ho realizzato quello che desideravo. Se non ci riesco per una strada, ne cerco altre».

Quali sono le “armi segrete”?

Mi piace ascoltare le persone, al punto che è diventata la mia professione, e credo nel lavoro di squadra.

Sei una psicoterapeuta del Centro Nemo Milano. Un centro voluto da Uildm e Fondazione Telethon.

Uildm rappresenta la famiglia e il Nemo la casa. La “persona al centro” non è uno slogan, ma una cosa che si prova sulla pelle. La malattia arriva dopo. Ho il privilegio di viverlo da professionista. Al Nemo, tutte le professionalità mettono a fattor comune competenze ed esperienze. Chi viene avverte volontà di migliorare la qualità di vita.

Nel tuo lavoro cosa ti piace di più?

La relazione coi pazienti, il cercare di carpire il disagio, per trasformarlo in un’opportunità di crescita, di dialogo con se stessi e di condivisione con l’altro.

Sei la nuova Presidente nazionale, ma, la storia tra Stefania e Uildm, come è cominciata?

Leggevo la rivista e capivo che lì c’era qualcosa di interessante. Nel 2013, ho ricevuto una lettera di Uildm Modena che diceva: cerchiamo giovani che abbiano voglia di mettersi in gioco. Perché non provare? Da Vicepresidente della Sezione ho incontrato persone, in tutta l’Italia, che parlavano di temi che vivevo sulla mia pelle, condividendo speranze e soluzioni.

Su cosa verteva la speranza?

Sulla ricerca scientifica. Sul sogno di una cura e, dall’altra parte, si parlava di inclusione sociale e diritti, come avere una vita piena e intensa.

Da Presidente, quali i punti su cui vuoi lavorare?

Con la squadra, abbiamo buttato giù la progettualità triennale. C’è un tema cardine che è il territorio. La rete capillare di Uildm è una risorsa. I Centri Nemo sono preziosi, ma in alcune zone il sistema sanitario non riesce ad erogare i servizi. Tocca alle sedi locali Uildm supplire. Per questo è fondamentale potenziare il territorio.

Qual è la strategia?

Vorrei che le Sezioni più strutturate fossero da modello per le più piccole. E realizzare delle riunioni itineranti che permettano un avvicinamento tra Direzione nazionale e sezioni locali per favorire il senso d’identità e appartenenza. Cercare referenti territoriali nelle zone in cui non ci sono sedi.»

Quali messaggi vorresti portare?

La cultura della qualità di vita. Grazie al lavoro fatto in questi anni e alla ricerca scientifica, le persone con disabilità oggi viaggiano, si spostano.

Un tema caro ai giovani è la vita indipendente.

Occorre trovare un modello efficace, partendo da uno studio che analizzi le alternative possibili, affinché ciascuno possa scegliere quella più adatta. Dobbiamo capire quali siano i pro e i contro di strumenti come l’assistente personale, il “cohousing”, e vedere come possano interagire. Per definire un modello replicabile.

Nel tuo programma da Presidente, ci sono riflessioni sul rapporto tra Uildm e Fondazione Telethon?

Nella nostra mission c’è la promozione della ricerca scientifica; il percorso fatto insieme finora ha portato a grandi risultati. Attraverso la comunicazione, Fondazione Telethon ha arricchito il racconto della persona. Non si parla solo della malattia, ma di vita. Questo aiuta a parlare di ricerca, di soluzioni indirizzate alla cura o al miglioramento della qualità della vita. Oggi parliamo di persone realizzate, perché la ricerca permette una vita degna di essere vissuta. La sinergia tra Uildm e la Fondazione sta nel raccontare la componente umana e quella scientifica, al servizio della persona.

Hai citato il territorio, “scenario” su cui Uildm e Fondazione Telethon lavorano insieme. Cosa possono fare i volontari?

Le persone che vivono il territorio lo conoscono e sono e conosciute. Si instaura un rapporto di fiducia. I volontari devono far capire che la ricerca è uno strumento che risponde ai bisogni delle famiglie di oggi e di domani.

Cosa dire a chi è scettico per la mancanza di una cura?

Una famiglia, mi diceva che il ragazzo, con distrofia facio scapolo omerale, aveva smesso di curarsi perché tanto non c’era niente da fare. Gli ho risposto che, se mai ci fosse stato un momento in cui arrendersi, di sicuro non poteva essere questo: ci sono trial in corso e altri arriveranno.

Una crescita che al Nemo vivi quotidianamente.

Anni fa, vedevo bambini con sma 1 con un’aspettativa di vita bassissima, allettati, tracheotomizzati. Poi ho visto una bambina trattata, seduta sul suo lettino, muoveva i piedini, prendeva piccoli oggetti. Un’emozione fortissima.

Come psicoterapeuta, cosa si dice ad una persona o ad una famiglia colpita da una malattia genetica?

Si comincia dall’ascolto. Per affrontare l’elaborazione del lutto e l’attivazione di nuove risorse. C’è il lutto di una funzione muscolare che si perde, dei progetti di vita che svaniscono. Il primo approccio è l’ascolto della sofferenza, per arrivare al potenziamento delle risorse. Bisogna trovare un modo diverso per fare un’attività che la malattia non ci consente di fare, nuove progettualità che siano energia per il quotidiano.

E con le famiglie, su cosa si lavora?

C’è il tema degli aiuti, intesi come figure professionali in grado di sostenere il paziente. Questo per permettere ai familiari di uscire dal ruolo del caregiver, riprendere le energie e tornare a vivere le relazioni di genitori, fratelli e sorelle, compagna o compagno. Così si cura l’anima.

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